Nuovi linguaggi, esplorazione e novità: dal 17 al 21 ottobre, il Romaeuropa Festival ha ospitato Dancing Days, la rassegna, frutto di un lavoro di network, grazie alla collaborazione con la rete europea Aerowaves e con DNAppunti Coreografici, a cura di Francesca Manica, è stata dedicata, come ogni anno, alle proposte di coreografi e danzatori italiani ed europei.
In questo contesto di innovazione e creatività, abbiamo incontrato la danzatrice e coreografa Stefania Tansini, la quale ha collaborato con importanti nomi della scena artistica contemporanea, tra cui Romeo Castellucci, Cindy Van Acker, Simona Bertozzi, Luca Veggetti, Enzo Cosimi, Ariella Vidach e Motus.
Vincitrice del premio UBU 2022 nella categoria “miglior performer under 35”, Stefania si distingue per sua ricerca sul corpo con originalità e un approccio innovativo alla danza contemporanea.
Con le sue parole abbiamo esplorato il suo ultimo lavoro ispirato a L’ombelico dei limbi di Antonin Artaud, un testo dedicato a temi quali l’alienazione e il dolore della frammentazione dell’Io. La performance, realizzato per lo spazio della Pelanda, è un viaggio introspettivo che indaga le relazione del reale. Un’opera snodata tra tensioni opposte: il desiderio di liberazione e disgregazione, e la volontà di ricostituirsi e condividere il tormento della fisicità, trascendendo il tempo e lo spazio, promettendo un’esperienza intensa.
Quale contributo, estetico o contenutistico, ha apportato ai Dancing Days il tuo spettacolo?
Penso che L’ombelico dei limbi rinnovi lo sguardo dello spettatore su un luogo anche conosciuto come può essere il Teatro 3 del Mattatoio, facendo diventare il luogo stesso protagonista dello spettacolo. Il pavimento a vista, le colonne, le vetrate totalmente aperte che allungano la visione fino al palazzo retrostante, accolgono il corpo danzante che a sua volta può tracciare il suo percorso solamente grazie a questo incontro. Un incontro tra le materie e tra il vuoto che le circonda. Un incontro tra pieni e vuoti.
Come hai scelto di affrontare il tema dell’alienazione e della frammentazione dell’identità presente nel testo di Artaud? Quali sono stati i punti di partenza per la tua performance?
Per me, la forma di scrittura e la struttura stessa de L’ombelico dei limbi permettevano ad altro di potersi accostare a questo testo, senza creare una subordinazione, ma un avvicinamento che facesse travasare ciò che di quei nuclei fondamentali di Artaud era più corrispondente a un sentire, a una forma scenica con una propria autonomia.
In questo processo, la frammentazione dell’identità come altre tematiche si sono travasate trovando la propria forma.
Andare a frantumare un’integrità – come può essere un corpo o uno spazio – dal mio punto di vista permette di moltiplicare gli elementi in gioco e le loro possibilità di composizione, e ritrovare un’unità a posteriori, alienata potremmo dire, ovvero con delle proprie regole non coincidenti con una logica abituale. Ad esempio il corpo di questo progetto attraversa gli spazi, si avvicina e si allontana dal pubblico seguendo delle logiche che prescindono da logiche già date, usuali, giuste secondo un senso comune. È alienato quindi nel senso che ha le sue regole dettate da una percezione della struttura fisica che guida l’azione, e non il contrario. La scansione del tempo e l’apertura di spazi risultano quindi frammentari e alienati.
Oltre al testo, un altro punto di partenza, o meglio, un’altra condizione necessaria è stata che il progetto poteva esistere solo in luoghi scarnificati, destrutturati, spogli, ridotti all’osso della loro materialità più cruda, sia che fossero luoghi teatrali che luoghi urbani.
Solo lì anche il corpo poteva scarnificarsi a sua volta, essere pienamente nella sua materia, senza ripari e senza rappresentazioni.
In che modo lo spazio della Pelanda ha influenzato la messa in scena? Hai adattato la tua interpretazione per rispondere alle caratteristiche specifiche di questo luogo?
Vorrei solo specificare che in questo progetto non c’è un’interpretazione, c’è un corpo che vive circoscritto in un progetto coreografico.
Questo lavoro è nato per influenzare e lasciarsi influenzare dai luoghi. Anche in questo caso, è accaduto. Anche in questo caso la coreografia si è cucita al luogo e il luogo è stato spogliato dal progetto. C’è sempre questo scambio, che rinnova, che alimenta, che avvicina realtà.
La tua performance esplora una tensione tra il desiderio di liberarsi e il bisogno di ricostituirsi. Come sei riuscita a esprimere questa contraddizione attraverso il linguaggio del corpo e la messa in scena?
Da un lato la performance inizia con una dimensione molto terrigna, che ha a che fare con un lato nascosto, con un silenzio tagliente che incide la figura del corpo e la rende a tratti inquietante. L’incedere della performance apre altre vie di presenza e di uso dello spazio che modificano questo inizio a tratti ostile.
Le contraddizioni, in ogni caso, sono materiale che arricchisce il linguaggio del corpo, di quel corpo che, appunto, vive anche grazie alle contraddizioni e non cerca una soluzione, una risoluzione.
L’azione avviene non per trovare certezze o pacificazioni, ma per modificare le tensioni attraverso differenti forme.
Qual è il significato della “condivisione del tormento del corpo” nella tua interpretazione? Come speri che il pubblico percepisca e si relazioni a questa parte della performance?
La condivisione del tormento è esattamente il momento dello spettacolo, che per me è sempre un momento di grande importanza, dove il corpo deve essere più aperto possibile per lasciarsi attraversare dal progetto. Il teatro permette questa condivisone, questo momento antico di condivisione di esperienza attraverso il corpo dell’altro.
Direi che, nel migliore dei casi, la speranza è che il pubblico percepisca se stesso, o almeno quella parte di se stesso che la performance permette di disvelare – nel migliore dei casi.
(Ph. Luca Del Pia)