La Distrazione della Formica di Niccolò Felici.

21 Luglio 2024

Un non-tempo, un non-spazio, due uomini, perlomeno, all’apparenza. Sono due schiavi, svuotati di tutta quell’umanità che forse un tempo gli apparteneva. Chi sono non lo sappiamo, non ne conosciamo il nome, il passato, possiamo osservarli nel presente e supporne il futuro. La parola d’ordine è lavorare, a tutti i costi, qualsiasi cosa accada bisogna continuare a lavorare, anzi a tirare. Tirare è il gesto che i due compiono, senza sosta, d’altronde sono lì per questo, per tirare una corda che sembra non finire mai, che non sanno cosa rappresenti o a chi o per quale scopo sia utile. La scena è spoglia, ridotta all’essenziale: due corde da tirare, per l’appunto, un secchio per i bisogni e altre corde che fungono da perimetro dello spazio in cui i due sono costretti. In scena soltanto due corpi e due anime in costante tensione fisica e psicologica. Da quanto i due siano stati trascinati in questo incubo senza fine non lo sappiamo, ma la stanchezza mentale e il dolore fisico sono indicativi: tanto, troppo tempo. Ogni giorno è uguale al precedente e al successivo, nulla può distrarli da questa estenuante quotidianità, eppure, una formica. Che sia reale? Che sia un vano tentativo di trovare un appiglio, anche se il più piccolo? Da questo momento la narrazione procede seguendo la relazione dissimile che i due instaurano con questa formica. Uno la trova, la coccola, la ama come se fosse la cosa più importante, per lui è “una sopravvissuta”, la coraggiosa che si è separata dalle altre per cercare una salvezza, eppure non può far altro che rinchiuderla a sua volta in una piccola scatolina perché non lo lasci più, per l’altro non è altro che una stupida che non può sperare in nulla di meglio.

Il testo si ispira a fatti realmente accaduti che risalgono al secolo scorso. Siamo in Toscana nel 1959 e 225 minatori rimasero rinchiusi per protesta sotto terra per più di un mese chiedendo uno stop ai licenziamenti e un miglioramento delle condizioni di lavoro. Da qui Felici rielabora il materiale concedendogli l’universalità del non-tempo e del non-spazio…quando? dove?…chissà.

La messa in scena cattura ed è la sostanzialità della scenografia a farla da padrona. Il messaggio è chiaro e diretto anche se nel complesso risulta fin troppo metaforico e poco radicato. L’impressione è che il tutto vada “sporcato” molto di più, a partire dal linguaggio. Non conoscere nulla dei personaggi concede al racconto una più facile generalizzazione, ma al tempo stesso non consente allo spettatore di immedesimarsi in nessuno dei due. Gli spunti testuali per far decollare questa tensione che inevitabilmente cresce sono diversi, ma poco sfruttati a favore di una sempre più pacata e rassegnata reazione alle circostanze. Il finale è quindi un’amara carezza, la chiusura di un cerchio, quando forse quello di cui si ha realmente bisogno è un pugno dritto allo stomaco. L’epilogo della formica è invece la scelta più realistica e quindi interessante del lavoro, perché alla fine, a muovere l’uomo, altro non è che la banale capacità del suo organismo di sopportare la fame.

II risultato finale è suggestivo, a partire dall’interpretazione degli attori, fino all’apporto registico di Tavani e al gioco di luci curato da Marco Foscari. La sensazione che ti lascia dopo averne fatto esperienza è che piuttosto che un punto di arrivo sia al contrario un ottimo punto di partenza per continuare a scavare e a “tirare”.

Soggetto e sceneggiatura: Niccolò Felici. Regia: Kabir Tavani. Con: Niccolò Felici e Daniele Trombetti. Aiuto Regia: Elena Fiorenza. Light Designer: Marco Foscari.

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