recensione di Emiliano Metalli
Roberto Cavosi racconta il Gattopardo da un differente punto di vista: utilizza alcuni passaggi, più o meno iconici, del romanzo e incentra lo sviluppo della vicenda di Teresa/Marianna attorno alla notte del famoso ballo, ricordato soprattutto grazie alle sequenze del film di Visconti e agli indimenticabili costumi di Tosi.
Per questa operazione il pensiero vola a Gosford Park di Altman, ma ambientato nella cucina di un palazzo siciliano dell’Ottocento al posto di una dimora di campagna inglese. Certo mancano anche altri elementi, tuttavia l’operazione è singolare e ha i suoi punti di forza, pur non proponendo la medesima complessità del gioco di classe che, anzi, è qui abbastanza in secondo piano.
Le vicende narrate – i filoni sembrano essere più di uno – risultano piuttosto episodiche, non arrivano a completare un quadro d’assieme che istituisca un vero dialogo con il riferimento letterario. Hanno la meglio le scene di genere: chi spia gli invitati e ne commenta abiti e atteggiamenti, chi elenca gli ingredienti rari dei piatti in preparazione, chi cerca conferme di una storia del passato la cui fine è già evidente dal principio, chi tenta una verghiana fortuna commerciale irraggiungibile. In mezzo a questo materiale “à la manière de”, il personaggio del Principe a tratti fa capolino da racconti e citazioni e cerca di innestarsi nella storia.
Insomma, c’è molto lavoro, innumerevoli riferimenti, tanta letteratura borbonica o post unitaria, ma poca azione. Anche perché la maggiore fragilità è costituita proprio dalla storia personale della protagonista i cui contorni restano troppo indefiniti.
La regia di Nadia Baldi cerca di divergere dal testo, orientandosi verso una declinazione quasi circense, in alcuni passaggi più dinamici, certamente straniante, per nulla verista. Tutte caratteristiche ricorrenti del suo teatro onirico, marionettistico e potentemente tellurico in cui un jeu all’apparenza banale si rivela, nel dipanarsi della trama, una manifestazione dei moti interiori e dei sentimenti profondi, vulcanici, imprevisti come le eruzioni del Vesuvio. Un’operazione di scavo nelle segrete del testo e del personaggio che a lei si offre.
Alterna quindi, fra scena e scena, un intenso movimento di oggetti e persone alla staticità emotiva di un pensiero interiore, amplificato da un costante impiego degli oggetti scenici, degli effetti illusori e delle luci a guisa di lanterna magica.
Vorrebbe approfondire l’animo dei personaggi più di quanto l’autore, in questo caso, lo permetta. Tuttavia solo alcuni di essi – e solo in particolari momenti – riescono a tenere fede alle richieste da lei avanzate, aprendo sottili spiragli grondanti umanità in un’atmosfera che, di fatto, è da comédie larmoyante.
Le originali strutture ideate da Luigi Ferrigno e appese sopra le teste degli attori somigliano a cappe dei fuochi di cucina, ma all’occorrenza, grazie ai colori e alle decorazioni a rose, si trasformano in gonne da ballo o campane da chiesa o, ancora, pentoloni traboccanti rabbia: oggetti con cui i corpi instaurano un dialogo fatto di giustapposizioni simboliche.
Degno di nota, per la preziosità della decorazione, è l’altare della santa che appare – purtroppo per un tempo molto breve – al finale.
I pregevoli costumi di Carlo Poggioli e le musiche di Ivo Parlati contribuiscono ad accendere la riflessione fra passato e presente nel solco di uno storicismo citazionistico che però non riesce a dare slancio a un testo chiuso in se stesso.
Gli interpreti padroneggiano stili diversi e questo contribuisce a rendere meno organico l’insieme, sebbene ognuno di loro porti a casa correttamente la sua parte. Così Tosca D’Aquino sfoggia la carnalità e il piglio di una madre senza perdere l’appeal di una donna ancora affascinante, Giampiero Ingrassia mantiene fede al suo Monsù – un personaggio comunque troppo grossolano per le sue corde – con una classe e una professionalità ormai rare, Giancarlo Ratti brilla con i suoi intermezzi pirandelliani che arricchisce di un colore locale dato dall’accento del sud.
Non sono da meno neppure Tommaso D’alia (cliché del figlio amorevole), Rossella Pugliese (quasi piccante replica della crudele Gesualda di Ruccello) e Francesco Godina (satiresco pulcinella di cucina), sebbene lo spazio dei rispettivi personaggi sia forse troppo limitato e non permetta un apprezzamento pieno delle loro visibili doti.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
“AMORI E SAPORI NELLE CUCINE DEL PRINCIPE”
di Roberto Cavosi
da un’idea di Simona Celi
con
Tosca D’Aquino
Giampiero Ingrassia
Giancarlo Ratti
e con
Tommaso D’alia
Rossella Pugliese
Francesco Godina
Scene Luigi Ferrigno
Costumi Carlo Poggioli
Musiche Ivo Parlati
Regia Nadia Baldi
Produzione La Contrada Teatro Stabile Di Trieste, Ente Autonomo Regionale Teatro Di Messina