Giorgio Barberio Corsetti porta in scena Amleto.
Fino al quattro dicembre al Teatro Argentina di Roma
C’è un momento a teatro, pochi attimi prima che lo spettacolo inizi, quando ci si siede le luci non sono ancora spente, c’è ancora un sottofondo di chiacchiericcio; rumori di cappotti tolti, scambi di saluti e di posti, i passi lesti di qualche ritardatario.
Se uno spettacolo riesce a catturare l’attenzione del pubblico in questi attimi distratti, parte con il piede giusto. Così è stato per l’adattamento e la regia dell’Amleto di Giorgio Barberio Corsetti, prodotto dal Teatro di Roma.
Amleto (Fausto Cabra) interrompe il chiacchiericcio del pubblico che d’improvviso si trova di fronte a una delle più celebri frasi della letteratura mondiale: «Essere o non essere, questa è la domanda.» e al suicidio, non con un’arma da taglio, ma con una presa elettrica e una bottiglietta d’acqua. Il Principe di Danimarca solo sul proscenio, emarginato dalla scena, indifeso come il suo piede nudo sulla presa elettrica, lega immediatamente con gli spettatori offrendosi in tutta la sua fragilità, contrapposto alla macchina scenografica fatta di tubi, metallo e scale che poco dopo appare. È Elsinore la corte fredda e rumorosa, marchingegno machiavellico, fatto di trappole, botole segrete e giardini sintetici, dove vivono, laidi e indifferenti come criceti in trappola gli altri protagonisti del dramma. (scene di Massimo Troncanetti)
Amleto sfugge alle regole di questa fabbrica grigia e sintetica dove tutto sembra artefatto e irreale per chi come lui, citando Nietzsche, «ha gettato una volta uno sguardo vero nell’essenza delle cose.»
Con questo taglio fuori posto, le sue espressioni stanche, disilluse diventa il ritratto della generazione contemporanea, eterno studente fuori corso, corroso dall’ansia di non sapere quale strada scegliere.
Annoiato, irritante, incompreso con le sue sgargianti camice incarna il nichilismo post punk, di una generazione imprigionata nei propri ragionamenti spinta all’azione solamente dall’incitazione dei vecchi padri, spettri, idoli da venerare, ma anche da distruggere.
Con un buon ritmo che molto deve alla traduzione del testo di Cesare Garboli, con attori ben diretti e smussati in qualche vizio retorico, la messa in scena di Corsetti cede a qualche passo troppo didascalico e a trucchi per non far sbadigliare il pubblico.
Gli attori imbrigliati all’azione, Ofelia (Mimosa Campironi) corre sul tapirulan, Polonio (Pietro Faiella) si dedica al giardinaggio, sono ostaggio di un’altra protagonista dello spettacolo: la scenografia.
L’ironia del testo appare un po’ sbiadita, soffocata dalla cupezza della messa in scena, non rende l’ilarità voluta da Shakespeare.
L’Amleto l’opera più originale della letteratura occidentale gode di ottima salute. Il Principe danese continua a mantenere dei tratti sorprendenti anche se è la centesima volta che sentiamo le sue parole. La regia di Corsetti sottolinea le sue peculiarità restituendo al pubblico un adattamento valido.