“Who can turn skies back and begin again?”: Peter Grimes e la solitudine dell’umano destino

16 Ottobre 2024

di E. Metalli

Fu grazie all’immenso genio di Pierluigi Petrobelli se ebbi la fortuna di conoscere Benjamin Britten e le sue composizioni: appunti e ascolti musicali di rara precisione e fascino. Fra i molti nomi suggeriti in quella carrellata di giganti del XX secolo, Britten spiccava per una amicizia condivisa e forse anche per una comune intesa drammaturgica: fu amore esplosivo, mai sopito.

L’allestimento di Peter Grimes che il Teatro dell’Opera propone sotto la magica bacchetta di Michele Mariotti e l’altrettanto magnetica regia di Debora Warner hanno riacceso questo amore che, dopo lo splendido Billy Budd, attende con ansia il Turn of the screw della prossima stagione, a completamento di una ideale trilogia a firma della regista britannica.

Nonostante al suo apparire molti critici, anche illustri, fossero scettici, ad oggi nessuno metterebbe in dubbio le reali potenzialità e la ricchezza – in termini musicali e drammatici – del Peter Grimes. Britten riesce a mettere in campo, in questa sua prima prova teatrale, tutti gli elementi che saranno, in futuro, strutturali del suo alfabeto compositivo: matureranno, si mescoleranno e arriveranno a estremizzarsi, per certi versi, ma essi sono già presenti – in nuce, sì… nemmeno troppo – in questo dramma.

La solitudine del protagonista, il rapporto con l’elemento “altro” (natura, famiglia o soprannaturale), la caratterizzazione d’ambiente, la capacità di condensare melodia e armonia in una orchestrazione ricca, ma non intellettualistica, l’uso di una vocalità espressiva che arriva dal dialogo al canto sfruttando ogni sfumatura intermedia, l’impiego di una coralità complessa e a servizio del messaggio drammatico (si pensi ai rimandi sonori fra Grimes e crimes, per esempio, che sembrano intrufolarsi nella mente dell’ascoltatore proprio grazie alle reiterazioni corali).

Caratteristiche più evidenti del Peter Grimes che sia Mariotti sia Debora Warner hanno saputo portare all’eccellenza in questa produzione, per merito di un cast superbamente a fuoco nei ruoli e duttile alle esigenze di entrambi.

La regia di Debora Warner sposta l’azione nella contemporaneità e la sottrae al bozzettismo d’ambiente che il poema The Borough di George Crabbe, alla base del libretto di Montagu Slater, potrebbe suggerire.

La vicenda di Peter diviene in parte una proiezione onirica o addirittura soprannaturale, dato rintracciabile fin dall’inizio in cui il protagonista dorme (o giace morto) sotto una grande barca sospesa. In parte anche una occasione di critica sociale all’emarginazione classista di tipo più economico che sessuale, benché molti vogliano leggere nel suo isolamento una diversità dovuta alla omosessualità. Potrebbe essere una lettura, ma non l’unica, questo è certo. Non va dimenticato, infatti, che Britten era vicino a idee progressiste che perseguivano principi di uguaglianza sociale all’interno di una società classista, come era allora (e forse lo è ancora oggi) quella inglese. Forse era più il tentativo di riscatto sociale a colpire Britten: il protagonista cerca di costruirsi una nuova identità – dichiaratamente sociale e, dunque, economica – attraverso il lavoro, come un lontano cugino dei Malavoglia. E come nell’epopea familiare verghiana, anche in questo caso lo sforzo non è debitamente ripagato, perché la pressione del giudizio e la conseguente emarginazione arrivano ad escluderlo definitivamente, tanto da portarlo al suicidio.

Il suicidio è l’atto con cui Peter si sottrae alla “caccia alle streghe” di un intero villaggio, è un destino – quasi preannunciato dalla regia – a cui né l’amore (Ellen) né l’amicizia (Balstrode) possono sottrarlo. La forza registica sta nel cogliere alcuni parallelismi con la contemporaneità – si pensi al cyberbullismo o all’ostracismo dei social media – senza inserirli però nello spettacolo. Mantenendone una purezza esecutiva, una linearità scenica che esprime, proprio per questo, una forza ancora più dirompente.

È evidente che Peter è diverso dagli altri. Neppure l’amico Balstrode con il suo motto “We live and let live, And look, we keep our hands to ourselves.” riesce a liberarlo dalla sua diversità.

E d’altronde Peter già vaga perduto nell’aria (o nell’acqua) fin dal principio: lo vediamo più volte cercare se stesso in alto, una figura aerea che volteggia sopra tutto e tutti. Una ricerca che è, in fondo, materializzazione delle sue riflessioni: “Who can turn skies back and begin again?”. Sono gli stessi suoi pensieri, prima ancora del suo atteggiamento, a renderlo un diverso. Se poi sotto tutto questo ci sia anche l’omosessualità, poco cambia.

Nella costruzione di questo percorso circolare, Debora Warner utilizza con puntuale attenzione gli spazi della scenografia multiforme di Michael Levine che è realistica – tanto nei materiali e negli oggetti quanto nelle luci di Peter Mumford – e simbolica al tempo stesso. Così la scogliera da cui precipita il nuovo mozzo non è che la facciata di una casa sbilenca: la casa che né il ragazzo né Peter riescono a trovare o a costruire.

Ma quelle stesse facciate, apparentemente abbandonate, fanno da sfondo alla piazza del villaggio, che somiglia piuttosto a un set cinematografico, per poi mutare in una sorta di immensa superficie metallica, allusione cromatica di una distesa marina gelida e distaccata.

In questo spazio i movimenti scenici di Kim Brandstrup sono più affini al mondo del musical che a quello dell’opera. E in effetti fra i due universi – complici esecutori e linguaggi – sembra esserci molto in comune.

Nella scena della tempesta l’interno è una buca-pub da cui entrano ed escono tutti grazie a una porta centrale, materializzazione della forza distruttrice del vento, mentre le luci, di nuovo complici della simbologia, simulano tanto i lampi quanto l’andamento emotivo della situazione drammatica che raggiunge lo zenith all’arrivo del nuovo mozzo.

L’alternanza delle scene d’assieme e di quelle dei singoli – Peter o Ellen – sono caratterizzate dagli oggetti: rifiuti, abbandono, inutilità che si riflettono sulle persone e ne illuminano le parole, rinnovandole e rendendole universali.

La dipartita di Peter Grimes, infine, ricorda La morte al timone di Munch, in cui un uomo solitario naviga sapendo che certamente non ci sarà altro, se non la fine, ad attenderlo. La vela del dipinto è di un giallo acceso, in netto contrasto con il blu scuro dell’acqua, proprio come i pantaloni cerati di Peter in contrasto con l’ambiente che lo circonda. Lo stile del dipinto è espressivo, dai contorni astratti, con un’attenzione particolare alle tonalità e all’emozione piuttosto che al dettaglio, proprio come i costumi di Luis F. Carvalho, la cui semplicità quotidiana, pure delineata da precise scelte di colore e realismo, genera un effetto generale di inquietudine.

A confronto di una regia tale, non è da meno la direzione di Michele Mariotti che riesce a restituire nitidamente all’ascolto ogni pagina della partitura, senza mai perdere un istante il controllo della compagine orchestrale e della compagnia di canto. L’intensità e la perfezione degli Interludi – di per sé brani da concerto sinfonico – fanno il paio con un’idea dinamica della vicenda che sul palco si infiamma o trema flebile come una fiamma che però non si spegne mai.

Mariotti non molla l’orchestra un secondo e ne ottiene sfumature delicate, negli accompagnamenti onirici ai soliloqui del protagonista per esempio, ma anche nei complicati brani di assieme, come accade durante la tempesta – quasi una costruzione responsoriale che esplode in un canone infuocato e polisemantico – o nella terribile scena della caccia al mostro-Peter: il silenzio si fa musica – Britten fa pensare alle avanguardie in questo caso, dove il tacet è funzione e non semplice pausa – e l’armonia si fa dramma, tangibile e spaventoso, materico e avvolgente, come una tempesta marina.

Ma il mare è anche quiete e pace, come nel finale dove il suono sembra disperdersi fra le onde, come le ombre dei personaggi in scena contro il fondale rilucente.

Le vocalità, dettagliate, precise, quasi tutte ad hoc per il ruolo ricoperto, sono impreziosite dal supporto orchestrale che non è mai al di sopra della parola, mentre i contrappunti delle scene più intime sono come i dettagli di un immenso arazzo, piccoli e necessari alla visione d’assieme.

Il coro, stupendamente diretto da Ciro Visco, esprime al suo meglio la compagine provinciale e aggressiva del villaggio e affronta le pagine più ardue con una sicurezza e una precisione da manuale.

Fra gli interpreti principali raccoglie maggiori consensi il Peter Grimes di Allan Clayton che è nettamente diverso rispetto al creatore del ruolo, Peter Pears. Sul fronte vocale, Clayton ha un timbro più esteticamente bello, decisamente più dolce, che mette in risalto i lati più fragili del protagonista. La cosa che colpisce è il dinamismo scenico, la duttilità del movimento, la precisione del gesto, la sicurezza interpretativa che gli permettono di cantare persino di spalle, senza errori. Il suo Grimes è un capolavoro di contemporaneità, senza rinunciare alle certezze della tradizione.

Seguono a strettissimo giro, per naturalezza scenica e qualità dell’interpretazione musicale, oltreché per vocalità perfettamente a fuoco, il Capitan Balstrode di Simon Keenlyside, sempre padrone della scena, Swallow di Clive Bayley e l’irriverente quanto sensuale Ned Keene di Jacques Imbrailo.

Sul fronte femminile, sono invece Catherine Wyn-Rogers (Auntie) e Clare Presland (Mrs. Sedley) ad avere la meglio, più la seconda della prima che cattura il pubblico nel suo “assolo”: fraseggio folle e dinamismo spinto all’eccesso rendono a perfezione il carattere della vecchia impicciona. L’altra si fa valere in alcuni pezzi d’assieme, in particolare con le due “nipotine” (Jennifer France e Natalia Labourdette: un po’ Paola e Chiara e un po’ Mercédès e Frasquita) e con la Ellen di Sophie Bevan portano a casa un quartetto meraviglioso!

Bevan è l’interprete più alterna, perché ha certamente in animo una Ellen moderna (sembra uscita dritta dritta da Billy Elliot) come atteggiamento e fraseggio e riesce anche a raggiungere registri di delicatezza commovente in alcuni passaggi in piano e pianissimo, salvo poi emettere alcuni suoni duri e aspri che stridono con il personaggio e con l’idea proposta fino a quel momento. È un peccato perché anche lei avrebbe potuto toccare – e forse lo farà nelle recite successive – un apice emotivo eccellente, facendo il paio perfetto con Allan Clayton.

Tutti gli altri partecipano alla scena e alla esecuzione musicale con professionalità e dedizione per uno spettacolo da Oscar.

Teatro dell’Opera di Roma

Peter Grimes

Musica di Benjamin Britten

Opera in un prologo e tre atti

Libretto di Montagu Slater dal poema The Borough di George Crabbe

Prima rappresentazione assoluta Sadler’s Wells Theatre, Londra, 7 giugno 1945

Prima rappresentazione al Teatro Costanzi 2 maggio 1961

Direttore Michele Mariotti

Regia Deborah Warner

Maestro del Coro Ciro Visco

Scene Michael Levine

Costumi Luis F. Carvalho

Luci Peter Mumford

Coreografia Kim Brandstrup

Video Justin Nardella

Personaggi e interpreti principali:

Peter Grimes Allan Clayton

Ellen Orford Sophie Bevan

Capitan Balstrode Simon Keenlyside

Swallow Clive Bayley

Ned Keene Jacques Imbrailo

Auntie Catherine Wyn-Rogers

Mrs. Sedley Clare Presland

Bob Boles John Graham-Hall

First niece Jennifer France

Second niece Natalia Labourdette

Rev. Horace Adams James Gilchrist

Hobson Stephen Richardson

A fisherman Daniele Massimi

Fisher-woman Michela Nardella

A lawyer Leonardo Trinciarelli

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

In coproduzione con Teatro Real di Madrid, Royal Opera House Covent Garden di Londra e Opéra National di Parigi

foto di Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Non perdere