Intervista di Emiliano Metalli
Simpatica, sorridente, estroversa e gentile. Questa è Roberta Mantegna, giovane soprano palermitana che sta conquistando i palcoscenici europei grazie al suo carattere volitivo e alla sua voce lirica dal timbro lunare e avvolgente. Diplomata in pianoforte e canto, vincitrice di concorsi, Roberta ha conquistato i suoi ruoli con professionalità, dedizione e cortesia, imparando da ogni esperienza: dalla Medea in Corinto di Mayr del prestigioso Festival della Valle d’Itria sotto la direzione di Fabio Luisi, fino al Pirata di Bellini debuttato al Teatro Alla Scala di Milano, attraverso molti titoli e innumerevoli ruoli.
Il nostro incontro a Roma, poco dopo il suo debutto in Luisa Miller di Verdi al Teatro dell’Opera, è iniziato in maniera originale.
Non partiamo dalla musica, perché tutte le interviste ai cantanti iniziano così. Parliamo di Roberta intanto… attore preferito?
Raoul Bova che è come il vino, invecchiando migliora! (ride)
Piatto preferito?
Impazzisco per i dolci e soprattutto la pasticceria siciliana!
Film preferito?
Le pagine della nostra vita e pure Dirty Dancing…
Teatro preferito?
I teatri dei musical londinesi. Se poi ci riferiamo all’Opera… forse il Teatro di Madrid, per il clima e per il lavoro. Mi ci trasferirei!
Quando hai avuto coscienza, per la prima volta, della tua voce?
Non saperei definire il momento. Forse intorno ai 20 anni. Sono stati piccoli momenti, episodi in cui ho intuito che il mondo mi ascoltava più cantando che parlando. Lì ho capito che poteva essere un mio punto di forza. Ho deciso così di puntare sul canto!
Il primissimo debutto?
Quando avevo 8 anni, sembravo quasi un maschiaccio allora, ricordo le foto del teatro all’aperto: mi divertivo a cantare a quei tempi, per esempio nel Cavallino bianco.
Da grande ricordo quando, alla fine della scuola superiore, il laboratorio teatrale mise in scena diversi musical, poi scelsero Vedova Allegra e ancora il Fantasma dell’Opera: lì feci la parte della prima donna, ma cantavo Traviata invece dell’aria del musical. In maniera terribile, meglio tenerla nascosta e non farlo sapere troppo!
Molti tuoi colleghi cantanti non posseggono la tua formazione anche strumentale: questo ti arricchisce o ti limita?
Mi arricchisce musicalmente, perché molti studi di pianoforte, fatti anche controvoglia, mi servono e mi sono stati utili anche negli studi di canto. Ho più facilità a preparare le nuove opere e una buona lettura a prima vista. Di contro mi limita perché sono molto analitica e precisa. Questo, alcune volte, non torna utile in scena. Mi manca una leggerezza che invece altri colleghi hanno.
Vale più la linea di canto o le direttive registiche?
Per me la linea di canto. Però diventa complicato far rispettare questa mia priorità visti i tempi delle produzioni, le prove, le difficoltà che affrontiamo noi cantanti sotto tanti punti di vista. Poi, dipende dalle persone con cui si collabora. Però è genericamente il “mercato” che chiede sforzi spesso oltre il possibile. L’anello debole siamo sempre noi cantanti rispetto al resto e così facciamo fatica, da una parte, a fare arte e, dall’altra, anche a tutelarci in termini di salute fisica e mentale. L’assenza di cover, per esempio, è un rischio per noi e per i teatri, ma spesso è un dato di fatto. Il covid, poi, ha peggiorato ulteriormente il sistema.
Cibo e opera: pensi che si nasconda il body shaming in alcuni allestimenti?
Penso che di base ci sia, ma che vada al di là degli allestimenti operistici. Il teatro è anche uno specchio della società. La società pressa per raggiungere e restare entro alcuni canoni estetici e così lo stesso avviene nel teatro. A volte capita la persona che ti dà fiducia in un ruolo senza pensare a questo aspetto. Ma non sempre. Alcuni registi sono un po’ fissati… la tendenza è quella. D’altronde ce lo instillano da bambine e poi queste idee vengono talmente introiettate che noi stesse siamo le prime a pretenderlo. Per quanto riguarda gli abiti di scena, per esempio, io esprimo apertamente il mio disagio, se c’è. A volte vengo ascoltata, altre no. E naturalmente la reazione cambia. Manca, credo, il lavoro di squadra in alcune produzioni e noi interpreti siamo in centro. Quando chiedo di affrontare un problema di questo genere, spesso non vengo ascoltata. Allora qualcuno deve cedere e, di solito, sono io.
Più professionista o più diva all’antica, come ti percepisci e come ti percepiscono?
Voglio tenere i piedi per terra, senza morire di gloria. Ma vivere e lavorare con equilibrio: perché il canto è un lavoro. Quindi sicuramente più professionista. Poi il divismo viene spesso percepito in qualche richiesta particolare che si può fare durante una produzione. Per me è un’esigenza, magari, per gli altri può sembrare divismo…
Riesci a conciliare la vita quotidiana, i rapporti di amicizia e familiari con le difficoltà dei viaggi e degli allestimenti?
È difficile. Negli ultimi sei anni tanti rapporti sono stati messi in discussione, tanti nuovi sono stati creati. Ci metto impegno. L’unica è costruire legami veri che, oltre la distanza, restino sempre.
Come spieghi il tuo lavoro ai tuoi coetanei e ai più giovani? Non ti considerano una persona fuori dal tempo attuale?
Dipende. Ci sono persone con cui mi sento un po’ l’animale da circo, il fenomeno da baraccone. Mi dicono: ma con l’acuto spacchi i bicchieri di cristallo? Rompi i vetri? Io sorrido, la prendo con molta filosofia. L’importante è far conoscere questo lavoro e questo ambiente culturale di cui, spesso, alcune persone non hanno neppure una minima idea. A volte ci provo e cerco di lasciare un segno per incuriosire e avvicinare al teatro. In altri casi trovo persone davvero interessate e allora tutto cambia, le conversazioni prendono anche altre vie più tecniche.
Io ti ho scoperta in Donizetti – era una recita di Maria Stuarda – e credo che tu abbia un timbro perfetto per questo autore: cosa condiziona invece la predilezione di altri repertori?
Purtroppo o per fortuna prendo quello che viene offerto dai direttori artistici. Il primo approccio a questo lavoro è stato un po’ estremo e mi sono trovata in situazioni più grandi di me. Ho tirato fuori le mie risorse e le ho affrontate. Sono convinta che queste esperienze mi faranno crescere ancora.
Quanto incidono i ruoli verdiani sulle tue scelte?
Beh, io farei Imogene del Pirata ogni mese, perché è nel mio cuore. Però Verdi mi piace molto. Alcuni ruoli li trovo più adatti rispetto ad altri. In più la musica verdiana mi accende l’entusiasmo. Alcuni ruoli proposti in futuro, forse, mi faranno rinunciare a un po’ di questo Verdi… ma finché non arrivano, canto volentieri Luisa Miller, Aroldo, I Lombardi alla prima crociata, Aida, Falstaff…
Opera di Roma: cos’è il progetto Fabbrica?
Ha fatto la mia fortuna. È una realtà che va oltre quella di una Accademia. Non ho esperienze dirette nelle altre accademia italiane, ma qui ci sono molte occasioni di debutto, c’è la volonta di avviare i giovani al lavoro e alla carriera. Si va in palco e ci si confronta con l’impegno vero: tu hai citato la Stuarda, per esempio, ecco quella fu un’occasione ottenuta grazie alla mia partecipazione a Fabbrica. Spero che il teatro dia sempre più fondi e fiducia a questo progetto. I giovani interpreti sono una grande risorsa in questi tempi, non solo in termini economici e produttivi, ma anche per la sopravvivenza dell’Opera.
Parliamo dei tuoi ruoli debuttati a Roma: molti e diversi, da Stuarda a Elena dei Vespri, da Micaela a Luisa Miller. Quale di questi ha inciso di più sulla tua maturazione, quale avresti forse aspettato a debuttare?
Amalia dei Masnadieri è un ruolo che ha inciso moltissimo sulla mia maturazione e ha dato un vero avvio della mia carriera. Da lì ho avuto moltissima fortuna.
Com’è cantare alla Scala in un ruolo come Imogene del Pirata?
Ah che gioia! Ero nel paese dei balocchi! Ora, in confronto, sono diventata una impiegata! È subentrato il peso delle aspettative. Meno ha inciso la storia interpretativa di quel ruolo né l’importanza di quel teatro, che in verità mi ha accolto con affetto. Ero convinta che per me sarebbe andata bene, a prescindere da tutto. Mi sono trovata bene con i colleghi, con le maestranze e con il pubblico. Non mi dimenticherò mai la prova in orchestra, quando ho cantato la prima aria di Pirata. L’orchestra della Scala alla fine mi fece un applauso e io scoppiai a piangere per l’emozione.
E a Palermo? Cosa vorresti cantare nella tua città?
Non so. Vorrei debuttare altro Bellini in Sicilia. Una Norma, una Beatrice di Tenda, meno usuale, che però sento di poter affrontare. Questo mi piacerebbe molto.
Debutti: ci sono molti titoli appetitosi, quale non vedi l’ora di affrontare?
Simon Boccanegra a Parma: che mi spaventa e mi eccita allo stesso tempo! So che è un pubblico difficile e pieno di aspettative, ma mi riempie di adrenalina!